Calvino ricordava che alla battaglia di Baiardo era incaricato di fare il portamunizioni

Baiardo (IM)

Italo Calvino ha atteso tanto tempo prima di descrivere l’unica battaglia alla quale ha partecipato di persona. Cosa rimane di un battaglia 30 anni dopo? I ricordi di quei lontani avvenimenti sono confusi. Sto cercando di riportare alla superficie una giornata, una mattina, un’ora tra il buio e la luce all’aprirsi di quella giornata. Da anni “non ho più smosso questi ricordi, rintanati come” anguille nelle pozze della memoria. Adesso che, passati trent’anni, ho finalmente deciso di tirare a riva le reti dei ricordi e “vedere cosa c’è dentro […]” <62 Di quel giorno in cui, assieme ai suoi compagni, il giovane Calvino si avvia verso il paese di Baiardo <63, che deve essere strappato ai fascisti, rimangono pochi ricordi. Non si può dimenticare né il dolore ai piedi chiusi nei pesanti scarponi né il sollievo provato quando, per non farsi sentire dai nemici, viene dato l’ordine di procedere scalzi. Non si può dimenticare il sollievo provato quella notte senza luna e senza stelle, quando, dal buio sono spuntati i partigiani degli altri distaccamenti per partecipare alla liberazione di quella cittadina che, magari, nel contesto della guerra mondiale non aveva una gran importanza, ma che rimaneva così importante per loro.
[NOTE]
62 Italo Calvino, La strada di San Giovanni, p. 49.
63 Un comune italiano appartenente alla provincia di Imperia in Liguria.
Marie Šimková, La rappresentazione della guerra nelle opere di Italo Calvino, Tesi di laurea, Università della Boemia meridionale di České Budějovice, 2015

Calvino aveva partecipato personalmente alla lotta armata durante la guerra civile e pur avendo scritto molto sulla guerra partigiana non si era mai raffigurato apertamente nei panni del combattente come accade invece in questo racconto. Il fatto che Calvino scegliesse di pubblicare questo testo autobiografico, in un forma incompiuta di cui non era pienamente soddisfatto, sul più diffuso quotidiano italiano, in occasione della celebrazione della festa civile che ha fondato la Repubblica italiana, sta ad indicare che egli gli attribuiva un grande valore civile ed etico. Il “Ricordo di una battaglia” evoca la battaglia di Baiardo (un paese a nord di San Remo) che si svolse il 17 marzo 1945 [n.d.r.: la maggior parte delle fonti indicano, invece, nel 10 marzo 1945 la data di questa battaglia partigiana di Baiardo]. Calvino militava allora col nome di battaglia di “Santiago” in una divisione garibaldina. In questo racconto Calvino si rende conto di non poter più possedere la pienezza del passato: esso appare come un granello depositato nella “sabbia mentale” e seppellito da miliardi di altri granelli. L’immagine puntiforme e pulviscolare, impalpabile e leggera della sabbia costituisce per Calvino l’emblema del mondo visto nella scrittura, una rete fittissima dei segni alfabetici che si susseguono sulla pagina come granelli di sabbia. Calvino vuole ricordare quella battaglia, da tanto tempo la sua memoria non si spingeva a quegli eventi, ma in tutto questo tempo egli pensava che quei ricordi in qualsiasi momento sarebbero stati a sua disposizione. Ora che è giunto il momento di fare emergere il passato nel momento presente Calvino si rende conto di non poter più possedere la pienezza del passato: esso appare come un granello depositato nella «sabbia mentale» e seppellito da miliardi di altri granelli.
[…] Nel “Ricordo di una battaglia” ritorna, dunque, la riflessione etica sulla scrittura, cioè sulla rete fittissima deì segni alfabetici che si susseguono sulla pagina come granelli di sabbia. La memoria si indirizza ad un mattino particolare e al risveglio di un distaccamento partigiano che si mette in marcia per un bosco al comando di Olmo, per andare a combattere. Il ruolo di Calvino è quello del «portamunizioni». La colonna di partigiani è diretta verso un paese delle Prealpi marittime tenuto dai bersaglieri repubblichini. Calvino non vuole raccontare la «storia» di quella giornata secondo la logica ricostruttiva del dopo. Ecco allora che questo racconto si presenta come un vero e proprio esercizio di memoria in cui l’accento cade sul presente della scrittura, considerata come il luogo effettivo di formazione della soggettività che, come accade anche negli altri scritti autobiografici di Calvino, rimane una presenza precaria, esposta alla crisi nel momento stesso in cui intende cogliere nel vivo l’esperienza del suo farsi: “Molte cose dovrei ancora aggiungere per spiegare com’era questa guerra in quel luogo e in quei mesi, ma anziché risvegliare i ricordi tornerei a ricoprirli con la crosta sedimentata dei discorsi di dopo, che mettono in ordine e spiegano tutto secondo la logica della storia passata, mentre adesso ciò che voglio riportare alla luce è il momento in cui abbiamo piegato per un sentiero…” […]
Massimo Lollini, Italo Calvino e l’esperienza della guerra civile in (a cura di) Herman van der Heiden e Tina Montone, Sessant’anni dopo. L’ombra della seconda guerra mondiale sulla letteratura del dopoguerra, Atti della Giornata di Studi tenuta il 5-4-2005 alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bologna, CLUEB

Molte cose dovrei ancora aggiungere per spiegare com’era quella guerra in quel luogo e in quei mesi, ma anziché risvegliare i ricordi tornerei a ricoprirli con la crosta sedimentata dei discorsi di dopo, che mettono in ordine e spiegano tutto secondo la logica della storia passata, mentre adesso ciò che voglio riportare alla luce è il momento in cui abbiamo piegato per un sentiero che gira giù in basso intorno al paese, in fila indiana per un bosco rado e rossiccio, ed è venuto l’ordine: “Toglietevi le scarpe dai piedi e legatevele al collo, guai se sentono il rumore dei passi, guai se in paese cominciano i cani a abbaiare; passata la voce e avanti in silenzio”. […]
Quello che vorrei sapere è perché la rete bucata della memoria trattiene certe cose e non altre: questi ordini che non sono mai stati eseguiti li ricordo punto per punto, ma ora vorrei ricordarmi le facce e i nomi dei miei compagni di squadra, le voci, le frasi in dialetto, e come abbiamo fatto coi fili, a tagliarli senza tenaglie. […]
Continuo a scrutare nel fondovalle della memoria. E la mia paura di adesso è che appena si profila un ricordo subito prenda una luce sbagliata, di maniera, sentimentale come sempre la guerra e la giovinezza, diventi un pezzo di racconto con lo stile di allora, che non può dirci come erano davvero le cose ma solo come credevamo di vederle e di dirle. Non so se sto distruggendo il passato o salvandolo, il passato nascosto in quel paese assediato. […]
Ecco che se provo a descrivere la battaglia come io non l’ho vista, la memoria che si è attardata finora dietro le ombre incerte prende la rincorsa e si slancia: vedo la colonna di quelli che s’aprono la strada verso la piazza, mentre dai vicoli a scale salgono quelli che hanno aggirato il paese. […]
Tutto quello che ho scritto fin qui mi serve a capire che di quella mattina non ricordo più quasi niente, e ancora più pagine mi resterebbero da scrivere per dire la sera, la notte. […]».
Italo Calvino, Ricordo di una battaglia, Corriere della Sera, 25 aprile 1974

Con la prima luce del giorno i partigiani, nel confrontarsi con i loro compagni, si rendono conto di costituire tutti quanti un’armata di straccioni, malvestiti, male armati, affamati e sporchi, eppure l’esser stati capaci di sopravvivere per tutto l’inverno sotto quelle condizioni così estreme per loro è già una vittoria importante. Se si è stati in grado di arrivare fin lì ancora con la voglia di battersi, si potrà anche essere in grado di cacciare da Baiardo i bersaglieri di Graziani, ben vestiti, bene armati, ben nutriti.
La battaglia per Baiardo serve a risolvere la questione tra i due gruppi di giovani: quelli che hanno scelto la strada della montagna, per non continuare la guerra al fianco di chi l’ha scatenata, portando morte e distruzione in tutta Europa, ma anche per non finire nei campi di lavoro tedeschi o ammazzati, e quelli che hanno fatto la scelta opposta, per rispettare il giuramento di fedeltà al Duce e sfuggire alla fame e ai disagi, visto che l’esercito garantiva una vita molto più comoda.
La battaglia comincia, ma lo scrittore, che ha avuto l’ordine di appostarsi con la sua squadra fuori dal paese per tagliare i fili del telefono e per sbarrare una possibile via di fuga al nemico, non vedrà niente per colpa degli alberi. Quando la vista non serve a nulla è l’udito che fornisce una chiave di lettura degli avvenimenti: il silenzio profondo che precede l’attacco viene rotto all’improvviso da spari, esplosioni, raffiche di mitra, che cessano piano piano per essere poi sostituiti da un canto di gioia: i vincitori cantano. I partigiani si avvicinano a Baiardo certi che i loro compagni abbiano liberato il paese, ma si sta cantando Giovinezza: hanno vinto i fascisti e non si può fare altro che scappare precipitosamente.
“In quella giornata, che avrebbe potuto essere gioiosa, tutto è andato storto ai partigiani. Nessuno di loro ha visto abbastanza per racconatare cosa è successo”. In mancanza di testimoni tocca allo scrittore ricostruire gli avvenimenti, non solo attraverso la fantasia ma anche basandosi sulla conoscenza di quegli amici accanto ai quali ha vissuto per mesi e dei quali ha imparato ad apprezzare il coraggio, “la decisione e la capacità di mettersi in gioco anche quando il gioco può costare la vita. Hanno provato a battersi i suoi amici: Gino è entrato in paese sparando, Tritolo ha gettato le sue bombe contro i bersaglieri e Cardù [n.d.r.: Riccardo Vitali], di fronte all’assoluta disparità di forze in campo, ha protetto con il suo corpo la ritirata dei suoi amici, restando colpito a morte. Cardù col segreto della sua forza nel sorriso spavaldo e tranquillo.” Cardù è morto. Bisognava far passare, o almeno elaborare, il lutto per l’amico ucciso, e ci voleva tempo. Tanto tempo, e forse i trent’anni sono bastati appena a recuperare la memoria di quella giornata particolare e mettersi a scrivere.
Marie Šimková, op. cit.

Il bombardamento di mortai si prolungò fin verso mezzogiorno

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Un tratto della strada che unisce Castelvittorio (IM) a Baiardo

Nella primavera del ’44 mio cugino Giacomo Rebaudo, che era venuto in contatto con i partigiani, mi disse che dovevamo entrare nella milizia per spiare i fascisti di Ventimiglia, così andammo ad arruolarci. Un mese più tardi, tuttavia, per non dover partecipare ai rastrellamenti, decidemmo di scappare. Dalla costa, attraverso Seborga e Perinaldo, arrivammo a piedi a Castel Vittorio, poi salimmo a Langan per raggiungere i partigiani di Vittò.
[…] Verso la metà di agosto, insieme ad altri uomini del mio distaccamento, andai al cimitero di Baiardo per recuperare il comandante Luppi [Bruno Erven Luppi] che era uscito dall’ospedale di Sanremo. Lo portammo in una campagna lì vicino e lo affidammo ad una famiglia del posto perché lo nascondesse. Dopo quell’azione, Marco [Candido Queirolo] giudicò più opportuno spostare l’accampamento: così, se i tedeschi fossero venuti a cercare il ferito, non ci avrebbero trovato. Mentre attraversavamo Baiardo per dirigerci verso il monte Bignone, Marco disse a me e ad un altro ragazzo di andare al forno e di aspettare che si cuocesse il pane, poi di raggiungere il resto del distaccamento. Mentre stavamo aspettando il pane, arrivò in Baiardo una squadra di tedeschi, così corremmo ad avvisare gli altri. Il comandante decise allora di tornare indietro con alcuni uomini per tendere un’imboscata ai nemici. Rientrati a Baiardo, però, furono i tedeschi a sorprenderci: due dei nostri vennero uccisi e altri due feriti. Io ed un altro prendemmo Marco, che era stato colpito ad una gamba ed alla schiena, e lo portammo in un casone vicino al paese, ma durante la notte morì.
Italo Rebaudo in Marco Cassioli, Ai confini occidentali della Liguria. Castel Vittorio dal medioevo alla Resistenza, Comune di Castel Vittorio, Grafiche Amadeo, Chiusanico (IM), 2006

n.d.r.: Erven era stato portato a Sanremo da Triora; infatti, come scrisse Carlo Rubaudo (in  Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) Vol. II: Da giugno ad agosto 1944, volume edito a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992) Ervenferito nella battaglia di Sella Carpe, era stato prima trasportato e medicato a Fontana Vecchia; poi a Castelvittorio, presso Caterina e Giovanni Orengo, è visitato dal prof. Moro che stima urgente un’operazione.  Con un viaggio di nove ore in barella, il ferito raggiunge l’ospedaletto di Triora, dove gli è praticata finalmente l’antitetanica. […] Dopo il ricovero e l’antitetanica, il dott. Giuseppe Bottari e il dott. Ferrero praticano al ferito l’ipodermoclisi. Ma siamo al 2 di luglio, l’inizio di uno dei più vasti e feroci rastrellamenti nazifascisti nella nostra provincia. Epicentro: Valle Nervia e Valle Argentina. I pochi feriti gravi dell’ospedaletto di Triora, fra cui Erven, sono portati in barella nel bosco del monte Trono… Erven anni dopo scriverà: “Nel primo mattino del 2 luglio 1944 i tedeschi in  rastrellamento cominciarono a bombardare con cannoni l’ospedale di Triora. Fu un fuggi, fuggi: in breve rimanemmo nell’ospedale solo cinque feriti gravi, il dottor Ferrero, il dottor Bottari, la Suora superiora dell’Ospedale e l’infermiere partigiano Battista. Il frastuono sempre più vicino delle armi tedesche, e le voci dei rastrellatori che già si udivano dal fondo valle dove Molini di Triora già era data alle fiamme…”.  ]

Nello stesso istante, gli parve udire le voci di Vendetta e Picun, i due partigiani che, nello «stagiu», custodivano il ferito [Bruno Erven Luppi]. Decise allora di uscire. Aveva appena messo piede fuori del casone, che gli comparve davanti, simile a un fantasma, una figura umana.
Prima che la paura lo agghiacciasse, ce la fece a raffigurare nella statura non alta dell’individuo, nei capelli folti e incolti, nella barba a due pizzi, nello sguardo vivo e penetrante sotto le sopracciglia nere e la fronte bassa, la sagoma del Tin. Convinto che il Tin fosse venuto per il «furto del latte», già era per dirgli che «sì il latte glielo aveva rubato… ma per non lasciar morire la cagnetta di fame e di esaurimento dopo un parto di cinque cuccioli; e perché era sicuro che se glielo avesse chiesto, sia lui che la sua vecchia, per tirchieria, avrebbero rifiutato, e…». Non terminò di pensare queste cose che il Tin, spalancando le braccia e col tono smorzato della sua voce di mago, diceva: «Come! voi dormite e non v’accorgete che il teutonico avanza! Sale da Castelvittorio, scende dal Ceppo e già accampa in Valéia e a Baiardo. Ma voi restate a poltrire; e, per giunta, con un ribelle ferito! Incoscienti, siete…».
«Come fate a sapere queste cose» gli chiese Chechin «quando noi, che abbiamo le vedette in giro, nulla sappiamo?».
«Figlio del Zorzu, come sempre non credi al Tin; anche se hai fatto il soldato… ragazzaccio eri e ragazzaccio rimani… che tiravi sassi al mio osservatorio! Chi me lo ha detto? Il Tin non ha bisogno di informatori! Il Tin legge nel firmamento: l’incrocio delle Termali con la Quintana, e la Moretta e la Zoppa, brillando di luce rossa, che è sangue e fuoco, preannunciano morte, incendi e distruzione in queste terre per mano del teutonico. Il Tin è venuto ad avvisare; e non per voi, incoscienti, ma per quel ferito … Del resto poi, fate quel che vi pare: ma ti ricordo che “chi non crede alle stelle e fa di sua testa, paga di sua pelle”». Detto ciò, con un saltello, voltò le spalle a Chechin e prese giù per il ripido vallone.
Era scesa nel fondo delle valli e nei boschi più intensa l’oscurità, dopo che la luna era calata dietro la vetta del Ceppo; ma, già all’estremo orizzonte, molto al di là del lungo promontorio su cui si stendevano le grigie case di Baiardo, il cielo schiariva nei primi albori del giorno. Chechin, scomparso l’astronomo e mago nella boscaglia del vallone, scese allo «stagiu». Chiamò Picun e Vendetta e riferì l’avvertimento del Tin.
«E dài ascolto al matto!» esclamò Picun. In quel mentre un bagliore di fuoco parve incendiare la terra sotto il passo per Castelvittorio e un boato echeggiò, con potente frastuono per tutta la distesa delle valli e dei monti. I tre stavano ancora con gli occhi fissi verso il passo, quando videro, sempre nella stessa direzione, sfrecciare al di sopra dei castagni e dei pini una lingua di fuoco che andò a esplodere verso le stelle producendo una gran pioggia di luci le quali, cadendo, illuminarono a giorno tutta la vallata.
«Ha ragione il Tin» disse Vendetta sogguardando Picun. «Quel razzo conferma che i rastrellatori han già preso posizione; e noi ce li vedremo piombare addosso da ogni parte da un momento all’altro».
Tacque, interrotto dalla Lilla che dal fienile s’era messa ad abbaiare così forte da svegliare Giuà e i due partigiani, i quali, imprecando, s’erano affacciati alla porta del fienile. Vendetta gli ordinò di raggiungere subito il loro distaccamento; poi, con Picun e Chechin, si occupò del ferito.
Rimediarono una specie di barella, vi legarono sopra il ferito, quindi, afferratala ai due capi, lui e Picun, lasciato Giuà u’ Zorzu a far sparire le tracce della loro presenza nel casone e seguiti da Chechin con un carico di coperte, presero verso il fondo del vallone.
Fu difficile scendere per il sentiero stretto, ripido, ostacolato da sterpi, e raggiungere il greto del ritano; ma più arduo fu risalire per oltre una quarantina di metri il ritano per sassi scivolosi, massi da scavalcare, strapiombi, strettoie di rocce e di rovi, erbacce che intricavano le gambe o nascondevano buche e dislivelli. Tuttavia, i tre, pure a costo di strappi ai muscoli, di storte e di graffi, riuscirono ad arrivare al «rifugio». Si trattava di una tana, o spelonca naturale scavata nella roccia, a livello del greto del ritano, con una profondità di circa tre metri, una larghezza informe di due e un’altezza che, da un metro e mezzo all’ingresso, scendeva nel fondo a una ventina di centimetri.
[…] Il bombardamento di mortai si prolungò fin verso mezzogiorno; poi, da sotto il Poggio di Mezzan, scoppiarono raffiche di mitragliatrici. Ogni tanto il vento leggero portava urla di voci rauche, feroci, incomprensibili.
Nella tana nessuno fiatava. Col silenzio ognuno aveva l’impressione di tenere lontano il nemico. Solo durante una pausa del frastuono, Vendetta bisbigliò: «Qui vi possono arrivare solo se li guida una spia». Assentirono Chechin e Picun; il ferito sussurrò un «già>.
Stavano così, raccolti, sempre muti e col batticuore, quando Vendetta, con un gesto allarmante li richiamò all’ascolto. Gli era parso di udire un rumore di passi e di rami secchi calpestati da sotto il ritano. Ascoltarono gli altri tre e impallidirono. Si udiva rumore e tutti e tre pensarono ai tedeschi lì guidati da una spia. Se non fossero però stati sconvolti da questa preoccupazione, avrebbero potuto distinguere nel rumore i passi di una sola persona. E comparve infatti davanti alla spelonca una sola persona: era Marì, la quindicenne sorella di Chechin.
Bruno Luppi, Saltapasti, La Pietra, Milano, 1979, ristampa del 2021 a cura di Francesco Brilla, Sezione ANPI Silvio Bonfante “Cion”, Montegrande, pp. 11-14

Il partigiano Nino e la missione Bentley

Vallecrosia Alta
Vallecrosia Alta

[…] A tal fine, la  N. 1 Special Force, la sezione italiana del SOE, organizzò l’invio di una missione, comandata dal capitano Robert C. Bentley, denominata “Saki”, che dal confine francese si sarebbe portata nella provincia di Imperia. Bentley avrebbe studiato la possibilità di approvvigionamenti alle forze partigiane via mare, e avrebbe cercato di collegarsi con la missione “Flap che era già operativa nel Piemonte meridionale e al confine con la  provincia di Savona. Dopo una ulteriore missione, denominata “Clarion”, comandata dal maggiore Duncan Lorne Campbell, sarebbe stata paracadutata per svolgere compiti di collegamento nella zona montagnosa a sud delle Langhe, egli avrebbe preso il comando del personale britannico nelle province di Imperia e Savona. […] Inizialmente la missione doveva essere paracadutata nella zona di Cuneo dove sarebbe stata contattata dal maggiore Temple della missione “Flap”, e successivamente avrebbe preso contatto con la 2° Divisione Ligure a nord di Imperia. La missione Flap era in contatto con le formazioni autonome del Maggiore Enrico Martini “Mauri” dell’Esercito di Liberazione  Nazionale. […] Il vice comandante sarebbe stato il capitano Bentley, ma la missione Clarion  non iniziò come previsto. Nelle istruzioni operative  della missione “Saki” del capitano Bentley, redatte un mese dopo, il 30 ottobre 1944, troviamo che la sua missione sarebbe arrivata via mare, avrebbe raggiunto le formazioni garibaldine della Div. “Cascione” sulle montagne imperiesi e solo dopo il suo insediamento sarebbe stata paracadutata la missione Clarion del maggiore Campbell. Al suo arrivo Bentley avrebbe lasciato il comando della missione a Campbell. Ma anche la missione Saki  non ebbe luogo secondo quanto pianificato  per le cattive condizioni climatiche. La missione Clarion venne paracadutata l’8 dicembre 1944: era composta dal maggiore Campbell, dal capitano Irving-Bell, dal tenente Clark e da due operatori radio.          Antonio Martino, La missione alleata “Indelible” nella II^ Zona Operativa savonese, pubblicato su Storia e Memoria, rivista dell’Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Genova, 2011-1

n.d.r.: la testimonianza che qui segue concerne lo sbarco clandestino di Robert Bentley, capitano del SOE britannico, incaricato della missione alleata di collegamento con i partigiani della I^ Zona Operativa Liguria, sbarco avvenuto la sera del 6 gennaio 1945 su una spiaggia dell’estremo ponente ligure. Un’azione perfezionata da parte del comando partigiano e degli alleati anche con la Missione Kahneman, salpata da Vallecrosia (IM) il 14 dicembre 1944. Della Missione Kahneman facevano parte anche Alberto Nino Guglielmi e Domenico Mimmo Dònesi. Raggiunti gli alleati, Mimmo e Nino furono ingaggiati dai servizi inglesi, sottoposti ad un breve addestramento e preparati alla missione di invio di Bentley. Dopo Natale 1944 Nino, preceduto per l’assolvimento di altre incombenze logistiche da Antonio Tonino Capacchioni, fu inviato a preparare lo sbarco di Bentley   ]

… Il giorno dopo papà nascose in un altro nascondiglio la radio. Venne la polizia, che rovistò dappertutto, ma fu facile dire che non sapevamo niente della radio e che non sapevamo dove Nino [il fratello Alberto Guglielmi] fosse fuggito (forse con la radio stessa).
Aumentarono le nostre visite alla casa sulla costa [nella zona a mare di Camporosso (IM)]. Accompagnavo mio padre con in braccio mio fratellino Bruno per rendere più facile il passaggio al posto di blocco all’altezza della caserma Bevilacqua di Vallecrosia (IM). Sorpassavamo di lato la sbarra e i tedeschi e i fascisti di guardia ci salutavano dalla guardiola. A volte trascinavamo il carretto con sopra le ceste dei fiori. A Vallecrosia Alta coltivavamo un piccola piantagione di garofani. Spesse volte tra i garofani mio padre nascondeva casse che nottetempo erano sbarcate sulla costa.
Compresi che quando era in previsione uno sbarco pernottavamo al mare a dispetto dei cannoneggiamenti da Monte Agel, e al mattino ritornavamo ripetendo la manfrina delle ceste dei garofani invenduti al mercato. Da quei giorni nella cantina della casa al mare furono custodite anche strane casse.
Sono certa che sbarcarono o si imbarcarono anche altri soldati alleati. In particolare ricordo che prima di Natale del 1944 una notte riapparve Nino accompagnato da un uomo alto, biondo come uno svedese e due baffoni. Erano appena sbarcati dalla barca, perché i pantaloni erano bagnati, e avevano anche diverse casse che nascosero in cantina e che vennero recuperate nei giorni successivi dagli amici di Nino: Achille [“Andrea” Lamberti,  comandante del distaccamento S.A.P. di Vallecrosia (IM)], Lotti [Aldo Levis Lotti, commissario del distaccamento S.A.P.] e altri. Ancora a notte partirono per Negi.

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La zona vicino al mare in cui abitava la famiglia Guglielmi

[La missione via mare di Bentley riuscì ad infiltrarsi nella notte del 6-7 gennaio 1945, dopo otto tentativi di sbarco, sulla spiaggia nei pressi di Bordighera …
Antonio Martino, La missione alleata “Indelible” nella II^ Zona Operativa savonese, pubblicato su Storia e Memoria, rivista dell’Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Genova, 2011-1 ]

La notte della Epifania [del 1945] riapparve mio fratello Nino con “Mimmo” [Domenico Dònesi] e un ufficiale inglese [il capitano Robert Bentley, inglese, che doveva assumere per l’appunto l’incarico del collegamento degli Alleati con la I^ Zona Partigiana Liguria], bagnato fradicio, che era evidentemente appena sbarcato. Sistemarono delle casse in cantina, poi si incamminarono di nuovo… L’indomani di buona ora con mio padre e mio fratellino Bruno ci incamminammo per Vallecrosia Alta. Era una strana carovana che procedeva dalla costa verso la collina di Santa Croce fino all’attuale via Orazio Raimondo. Io, mio padre con mio fratellino sulle spalle e un carretto con delle ceste di fiori all’interno delle quali forse era nascosta una radio ricetrasmittente o altre casse, procedemmo  lungo la via provinciale per passare il posto di blocco. Ampeglio “Elio” Bregliano, Mimmo, Nino, il capitano Bentley e Mac, il marconista, lungo il versante della collina, nascosti tra i pini e sotto i pergolati delle coltivazioni di verde ornamentale proprio dietro la caserma Bevilacqua lungo il sentiero del Nespolo. Davanti e dietro altri partigiani. All’altezza del cimitero di Vallecrosia incontrammo Achille Lamberti [nome di battaglia Andrea, comandante del distaccamento S.A.P. di Vallecrosia], e Lotti [Aldo Levis Lotti, comandante del distaccamento S.A.P. di Vallecrosia], che avevano fatto da staffetta e portato un po’ di pane. Arrivò anche Eraldo [nome di battaglia Mura] Fullone con un carro e una mula per caricare le ceste di fiori. Con mio padre e Bruno mi fermai a casa a Vallecrosia Alta. Nino, Mimmo, Elio e gli inglesi procedettero fino a Soldano (IM) con Lotti, Achille e Eraldo che li precedevano di vedetta contro eventuali incontri di tedeschi […] Il 10 gennaio 1945 nella chiesa parrocchiale venne officiata la Santa Messa dell’anniversario della morte di mia madre. A cerimonia appena iniziata apparve Nino, il quale si sedette qualche banco davanti a me. Dal mio posto ad un tratto vidi una donna, che era dietro di lui e che non riconobbi, toccare lievemente Nino sulla schiena. Come fosse un segnale convenuto, senza voltarsi, mio fratello si alzò e si allontanò confondendosi tra la gente: fu l’ultima volta che vidi mio fratello. La mattina del 25 gennaio 1945 mio padre arrivò trafelato a casa, ordinandomi di vestire di corsa Bruno e di prendere un po’ di vestiario. Ci imbacuccammo con ogni possibile indumento e di fretta uscimmo dal paese verso la collina. Camminammo fino ai Negi, dove sostammo a casa di una conoscente. Ci aspettavano Elio e Mimmo.  A sera ci incamminammo per raggiungere la spiaggia di Vallecrosia. Traversammo una piantagione di limoni: mio padre, Elio e Mimmo si riempirono le tasche di limoni. Faceva freddo, molto freddo. Al mare ci aspettava una barca. Il mare era mosso e ci vollero tutta l’esperienza e l’abilità di mio padre per governare la barca. Il vento ogni tanto ci spruzzava sul volto la spuma delle onde. Mentre stringevo Bruno dicendogli di non aver paura, Mimmo e Elio divorarono tutti i limoni nel vano tentativo di sottrarsi al mal di mare. Giungemmo a Monaco e gli alleati ci soccorsero. Dapprima fummo ospitati a Nizza da parenti, poi preferimmo stabilirci a Beausoleil.
Mimmo venne sovente a trovarci portandoci qualche genere di conforto.
Il 26 aprile 1945 mio padre decise di ritornare a Vallecrosia.
Giunti a Ponte San Luigi, non ci lasciarono rientrare in Italia. Non avevamo documenti!
Come facevamo ad avere documenti se eravamo fuggiti clandestini?
La guerra era appena finita e la burocrazia ottusa già manifestava tutta la sua forza.
Ritornammo a Beausoleil e mio padre affermò “Ritorniamo in Italia come ne siamo scappati”.
Un suo amico pescatore di Monaco, forse anche lui contrabbandiere, gli mise a disposizione una barca e la notte del 27 ci imbarcammo per ritornare in Italia.
Sbarcammo clandestini come clandestini eravamo partiti. Sebbene la guerra fosse finita non avevo notizie di Nino. Fu allora che alle mie pressanti richieste mio padre mi mise al corrente che Nino era morto il 20 gennaio. Fu ammazzato a Baiardo (IM), sulla strada per Vignai. [La documentazione ufficiale indica che Alberto Nino Guglielmi venne fucilato dai tedeschi a Sella Carpe di Baiardo (IM) il 18 gennaio 1945]. Riuscii ad andare a Baiardo accompagnata dalla mia amica Manon per cercare dove fosse sepolto Nino… Emilia Guglielmi in Giuseppe Mac Fiorucci, Gruppo Sbarchi Vallecrosia <ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia – Comune di Vallecrosia (IM) – Provincia di Imperia – Associazione Culturale “Il Ponte” di Vallecrosia (IM) >, 2007

La mattina del 18 gennaio 1945 mentre eseguivano una missione di trasporto lungo la strada che da Vignai porta a Passo Ghimbegna, all’altezza del bivio per Monte Ceppo, Nino e Mimmo vennero intercettati da militi della RSI. Nino venne ferito, fatto prigioniero e quindi trucidato.  Mimmo riuscì a fuggire e avvisò la famiglia di Nino che abitava, sfollata, a Vallecrosia Alta. Nell’attesa che i partigiani di Vallecrosia, il Gruppo Sbarchi, preparasse un’imbarcazione, Mimmo, l’anziano padre di Nino, la sorella diciottenne Emilia e il fratellino Bruno di 4 anni si nascosero a Negi, Frazione di Perinaldo, sfuggendo ai fascisti che li ricercavano. La notte del 25 gennaio del 1945 la famiglia di Nino fu portata in salvo con una barca a remi da Mimmo ed Ampelio Elio Bregliano. Raggiunsero la costa di Beausoleil e Mimmo ritornò al comando alleato a Nizza; per alcune volte incontrò ancora Emilia, poi un giorno dei primi di aprile del ’45 gli alleati decisero che aveva dato abbastanza e lo rimpatriarono nella Napoli liberata.
appunti inediti di Giuseppe Mac Fiorucci, autore Op. cit.

 

Tra quei giovani credo ci fosse anche Italo Calvino

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Uno scorcio di case Cristai-Peverei, in Negi, Frazione di Perinaldo (IM)

Trascorso il plenilunio, la notte del 14 [dicembre 1944] partiva con un’altra barca anche il partigiano dott. Kahneman (Nuccia) con la pianta di tutte le postazioni tedesche del primo schieramento costiero e le coordinate delle principali fortificazioni, ricevute a Coldirodi [Frazione di Sanremo (IM)] da un incaricato della Divisione Felice Cascione. Su interessamento del comando della I^ Brigata Silvano Belgrano [ n.d.r.: che faceva ancora parte della II^ Divisione “Felice Cascione”, ma asarebbe passata dopo pochi giorni a far parte della neo costituita Divisione “Silvio Bonfante” ], rientravano dal Piemonte nella prima decade di novembre e, con l’aiuto di Corsaro [Giulio Pedretti], dopo qualche giorno seguivano Nuccia verso la Francia anche due soldati R.T. americani, fuggiti ai tedeschi in Alta Italia, con il compito di sollecitare presso il Comando alleato l’invio di apparecchi radio ricetrasmittenti. Il tenente Antonio Capacchioni del gruppo Kanhemann veniva incaricato di preparare, in collaborazione con la S.A.P. di Vallecrosia, l’arrivo presso la Divisione Felice Cascione del capo della Missione alleata, il capitano inglese Robert Bentley. L’insieme degli uomini addetti al raggruppamento sbarchi e imbarchi, forniti quasi tutti dalla S.A.P. di Vallecrosia, comandati dal garibaldino Renzo Rossi di Bordighera e dal commissario Gerolamo Marcenaro di Vallecrosia, tra gli altri comprendeva i garibaldini Achille Andrea Lamberti [comandante del distaccamento S.A.P. di Vallecrosia], Vittorio Lotti [in effetti Aldo Levis Lotti, commissario del distaccamento S.A.P. di Vallecrosia], Renato Plancia Dorgia, Ezio Amalberti, Vincenzo Biamonti, Irene Anselmi, Eraldo [Mura] Fullone… Salvatore Marchesi [Turi Salibra Salvamar], Angelo Mariani [Athos], Luciano Mannini (Rosina), Renzo Biancheri [dai compagni di lotta ricordato sempre nelle testimonianze da loro rese come Rensu u Longu, mentre il nome di battaglia era Gianni], fino a raggiungere una forza di una ventina di uomini che funzionavano a pieno ritmo.
Francesco Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV: Da Gennaio 1945 alla Liberazione, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2005

Le prime voci di antifascismo a Vallecrosia si ebbero nel 1940/41 da parte di Achille [Achille Lamberti, “Andrea”], di Francesco “Cè” Garini, di “Girò” [n.d.r.: o “Gireu”, Pietro Gerolamo Marcenaro], di Aldo Lotti e di altri.
Un antifascismo molto riservato, anche perché le ritorsioni erano molto dure, come nel caso di Alipio Amalberti, zio materno di Girò, che per aver gridato in un bar di Vallecrosia “Viva la Francia” venne dapprima schedato e successivamente costantemente perseguitato, fino a essere fucilato per ritorsione dopo essere stato preso come ostaggio.
Renato Plancia Dorgia  in Giuseppe Mac Fiorucci, Gruppo Sbarchi Vallecrosia, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia – Comune di Vallecrosia (IM) – Provincia di Imperia – Associazione Culturale “Il Ponte” di Vallecrosia (IM), 2017
 
[  n.d.r.: Sergio Sergio Marcenaro, all’epoca quattordicenne staffetta partigiana, nonché fratello del già citato Girò, precisa che lo zio materno Alipio per quella frase, riportata qui sopra da Dorgia, era stato condannato a cinque anni di confino. Ne fece poco più di tre, perché avendo dato prova pratica nel luogo di isolamento di essere un valido agricoltore del ponente ligure, il graduato fascista, che gli aveva già concesso la possibilità di lavorare, aveva altresì intercesso a quel punto per una riduzione della sua pena. Ma il suo nome era rimasto segnato e, a seguito di varie traversie, schematicamente indicate qui di seguito, venne trucidato a Badalucco (IM) il 5 giugno 1944  ]
[ n.d.r.: Pietro Gerolamo Marcenaro risultava latitante già nel verbale della Questura (fascista) di Imperia del 15 giugno 1944, riferito alle indagini ed agli arresti effettuati verso la fine di maggio nella zona di Ventimiglia e di Bordighera a danno del costituendo CLN di Ventimiglia, del già esistente CLN di Bordighera, del gruppo antifascista “Giovane Italia” e di altri patrioti collegati, un documento edito in don Nino Allaria Olivieri, Ventimiglia partigiana… in città, sui monti, nei lager 1943-1945, a cura del Comune di Ventimiglia, Tipolitografia Stalla, Albenga, 1999, pp. 9, 24 ]
[ n.d.r.:  Alipio Amalberti, nato a Soldano l’11 febbraio 1901, già nelle giornate che seguirono l’8 settembre metteva in piedi un’organizzazione per finanziare ed armare i gruppi che si stavano formando in montagna a Baiardo (IM) insieme a Renato Brunati di Bordighera, fucilato dalle SS il 19 maggio 1944 sul Turchino e Lina Meiffret, proprietaria di una villa poco fuori Baiardo, punto di riferimento e talora rifugio di quella piccola banda, che, catturata insieme al fidanzato Brunati, venne deportata in un campo di concentramento in Germania, da cui tornò fortemente provata, ma salva. Arrestato il 24 maggio 1944 a Vallecrosia e tenuto come ostaggio, in quanto segnalato più volte come sovversivo, Alipio Amalberti venne fucilato a Badalucco il 5 giugno 1944 come ritorsione ad un’azione del distaccamento di “Artù”,  Arturo Secondo, compiuta il 31 maggio ]

Sono nato nel 1925 e nel 1943 ero uno studente, che frequentava con profitto il liceo classico di Sanremo, sempre promosso e anche un po’ imbevuto di fanatismo fascista, specialmente dopo la guerra di Spagna. A causa della propaganda di allora parteggiavo per i franchisti.

Ero renitente alla leva, ma non c’era ancora una resistenza organizzata. Per evitare di farmi catturare, mio padre mi nascose da parenti di mia madre a Isola del Cantone, in provincia di Genova. Venni dichiarato disertore e fui condannato a morte con sentenza del tribunale di Sanremo in data 28 febbraio 1944. Per i disertori la pena comminata dalla Repubblica Sociale di Salò era, infatti, la fucilazione immediata.
La mia permanenza a Isola del Cantone era dunque pericolosa per me e per i miei parenti.
Approfittando del bando che sospendeva la fucilazione per i disertori che si fossero presentati spontaneamente all’arruolamento, mio padre mi venne a prendere e col treno ritornai con lui fino ad Arma di Taggia [Taggia (IM)], poi da Arma a Vallecrosia in bicicletta, fortunatamente senza essere mai fermati. Nel frattempo Girò, Achille Lamberti ed altri avevano organizzato un principio di Resistenza.
Attraverso mio padre, presi contatto con loro e assieme ci demmo alla macchia.
Achille Lamberti, Cè Garini, Girò Marcenaro, Aldo Lotti, Nello Moro e io partimmo per il punto di raduno a Langan.
Poco pratici, percorremmo il tragitto più lungo e impervio dove Girò dimostrò tutta la sua volontà: per una malformazione camminava con difficoltà e meno agevolmente di noi, ma non si arrese.
In località San Martino di Soldano (IM) ci unimmo ad un gruppo di studenti di Sanremo che il C.L.N. aveva indirizzato verso noi per raggiungere Langan [Località di Castelvittorio (IM)]. Tra quei giovani credo ci fosse anche Italo Calvino [ n.d.r.: di lì a breve tra i redattori del giornale “Il Garibaldino”, stampato a Realdo, Frazione di Triora (IM), di cui furono creatori ed animatori Fragola Doria ([Armando Izzo) e Silla, Ferdinando Peitavino, di Isolabona (IM), quest’ultimo in seguito, da fine gennaio 1945, vice commissario politico della II^ Divisione “Felice Cascione”]. Non ne sono sicuro, ma dalle fotografie dello scrittore viste nel dopoguerra sono certo di aver riconosciuto un compagno con i quali trascorsi a Carmo Langan [località di Castelvittorio (IM)] i miei primi giorni da partigiano.
Quando giungemmo sopra Castelvittorio (IM), ci venne incontro un partigiano, un militare unitosi alla resistenza dopo l’8 settembre 1943, tale Iezzoni “Argo” [n.d.r.: Altorino Iezzoni, nato ad Atri (TE), il 26/04/1914, già caporale del Regio Esercito, commissario di Distaccamento della neoformata (il 20 giugno) IX^ Brigata d’Assalto Garibaldi “Felice Cascione”], che ci accompagnò fino a Langan, dove c’era il “quartier generale” e dove si concentravano tutti i neo-partigiani.
Salutandoci, il partigiano Iezzoni ci disse che l’indomani probabilmente sarebbero sbarcati gli alleati.  Sarebbe stato, invece, il giorno della da noi famosa “notte dei bengala” del 21 giugno del 1944, quando tutti credevano e speravano nello sbarco degli alleati e invece ci fu solo un grande bombardamento. Otto giorni dopo [il 27 giugno 1944] “Argo” moriva in un’operazione a Baiardo (IM).
Fu il primo schiaffo che ricevetti dalla realtà della mia guerra di partigiano.
Fummo segnati su un grosso registro e arruolati al comando di Vittò [anche Vitò e Ivano, nomi di battaglia di Vittorio Giuseppe Guglielmo, dal 7 luglio 1944 comandante della V^ Brigata d’assalto Garibaldi “Luigi Nuvoloni”, dal 19 dicembre 1944  comandante della II^ Divisione “Felice Cascione”].
Girò mi attribuì il “nome di battaglia” di “Riccardo”, da Riccardo Cuor di Leone. In realtà non mi sono mai sentito tale.
Restammo a Langan un paio di giorni e depositammo le armi che ci eravamo procurati a Vallecrosia, tanto avevamo possibilità di averne altre, recuperandole tra quelle nelle caserme abbandonate o gettate dai soldati dell’armata italiana in rotta dal fronte francese dopo l’8 settembre.  […] Le merci sbarcate venivano nascoste e successivamente trasportate a Negi e consegnate ai garibaldini di “Curto” e Gino Napolitano. Sovente ero incaricato del trasporto a Negi. Tra gli altri carichi ricordo una macchina da scrivere. Era pesante, pesava quanto un mortaio; ricordo che, nella fatica, dovetti sforzarmi non poco per convincermi che per vincere la guerra fosse necessaria anche una macchina da scrivere e superare la tentazione di buttarla in una scarpata.
Chi dirigeva tutte le operazioni era Renzo Rossi “Rensu u Curtu” per distinguerlo da Renzo Biancheri “U Longu”. Il comando alleato aveva deciso già nel settembre ’44 di inviare presso le formazioni partigiane ufficiali-istruttori e di collegamento. […] Con lo sbarco [6 gennaio 1945] del capitano Bentley [n.d.r.: ufficiale del SOE britannico, incaricato del Comando Alleato presso il comando partigiano della I^ Zona Liguria] si strinsero ancor più i rapporti tra il Gruppo Sbarchi di Vallecrosia e il gruppo di “Leo” Carabalona, del quale faceva parte Giulio Corsaro Pedretti, che per primi avevano preso contatto con le forze alleate. Gli sbarchi si susseguirono con invio di armi e anche di agenti radiotelegrafisti per azioni di spionaggio. […] L’organizzazione dell’Operazione Sbarchi non fu cosa semplice. Bisognò innanzitutto trovare natanti idonei a raggiungere la costa francese per le necessità di trasporto dall’Italia alla Francia; in senso inverso provvedevano gli alleati con potenti motoscafi pilotati da Pedretti […]

Renato Plancia Dorgia  in Giuseppe Mac Fiorucci, Op. Cit.

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Una vista su Camporosso (Mare), Vallecrosia e Bordighera

4 aprile 1945 – Dal Quartiere Generale rappresentante dell’Alto Comando Alleato al commissario Orsini [Agostino Bramè, commissario politico della V^ Brigata “Luigi Nuvoloni” della II^ Divisione d’Assalto Garibaldi “Felice Cascione”] – Veniva conferito incarico al commissario in indirizzo di avvisare i responsabili della ricezione degli sbarchi di iniziare le segnalazioni alle ore 23.15 del giorno 4 stesso per i 5 giorni successivi, mentre dal giorno 10 al giorno 12  dovevano iniziare alle ore 24.  L’intervallo tra una segnalazione e l’altra doveva essere di 5 minuti.  Si richiedevano chiarimenti sulla lettera del 29 marzo con la quale era stato comunicato che i tedeschi erano a conoscenza del punto di sbarco.

7 aprile 1945Dal Comando della I^ Zona Operativa Liguria a Orsini [Agostino Bramè, commissario politico della V^ Brigata d’Assalto Garibaldi “Luigi Nuvoloni” della II^ Divisione “Felice Cascione“] – Venivano chiesti, dietro protesta del capitano Roberta [Robert Bentley, ufficiale alleato di collegamento], chiarimenti circa la distribuzione di armi arrivate in tre differenti sbarchi, circostanze sulle quali non erano state fatte le dovute relazioni.

9 aprile 1945 – Dal comando della V^ Brigata  al Comando della I^ Zona Operativa Liguria – Riferiva che “… sono giunti 2 garibaldini dalla Francia che hanno colà seguito un periodo di istruzione e che hanno preannunciato un prossimo arrivo di materiale bellico...”

da documenti Isrecim in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio / 30 Aprile 1945), Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia, Anno Accademico 1998/1999
La base alleata in Francia era a Saint Jean Cap Ferrat, nella baia di Villafranca, nella villa Le Petit Rocher.
Da Vallecrosia si partiva, naturalmente di notte, e si raggiungeva il porto di Montecarlo, facilmente individuabile perché l’unico illuminato.
All’ingresso del porto una vedetta intimava l’alt e accompagnava il natante all’approdo sotto stretta sorveglianza.
Qui l’equipaggio forniva alle sentinelle alleate del porto di Monaco solo un numero di telefono o di codice e il nome dell’ufficiale dell’Intelligence Service. […] Per me era la prima volta, mentre per gli altri si trattava dell’ennesima traversata.
Fummo accolti dal capitano Lamb, che ci condusse a Le Petit Rocher. Ci diede qualche istruzione, tra le quali ricordo che, alla mia richiesta di una qualche sorta di documento, ci disse che a eventuali controlli dovevamo solo rispondere che eravamo maltesi e di riferire il suo nome, capitano Lamb con il numero di riconoscimento.
Mettendo mano al portafoglio, Lamb cominciò a distribuire una banconota da 500 franchi. La sua intenzione era di consegnarne una per ognuno di noi, ma Renzo Rossi, intascata la prima banconota ringraziò dicendo che 500 franchi bastavano per tutti.
Il capitano, sorpreso, ci fissò negli occhi uno per uno e domandò:
“Ma voi siete proprio Italiani?”.
Scoppiò poi a ridere, ma, per un attimo, vidi nel suo sguardo il sospetto che fossimo sabotatori. […] Nei giorni successivi ci portarono nei pressi dell’aeroporto di Nizza.
In un capannone erano accatastate una quantità notevole di mitragliatrici italiane Breda nuove e imballate. Evidentemente preda di guerra dell’avanzata alleata su Nizza nell’agosto del 1944.
Ma perché non le avevano fornite a noi già l’anno prima?
Prelevammo armi, viveri, vestiario e materiale sanitario.
Al Petit Rocher predisponemmo tutto sulla banchina per stivare il carico sul motoscafo che ci avrebbe riportato a Vallecrosia.
Dovemmo imbarcare anche due agenti di Ventimiglia (Paolo Loi e un altro che non ricordo, che avevano seguito un corso di sabotatori imparando a maneggiare l’esplosivo al plastico).
Per far posto ai due sabotatori, lasciammo a terra i viveri e il vestiario imbarcando solo le armi e i medicinali, contro la volontà degli ufficiali inglesi.
Ricevemmo la direttiva di annullare lo sbarco se non avessimo avvistato da terra il segnale di riconoscimento.
Arrivati al largo di Vallecrosia, nessun segnale, ma Girò mise ugualmente in acqua i due canotti e disse che, per maggior sicurezza, saremmo approdati nel tratto di spiaggia davanti alla sua abitazione.
Era meno sorvegliato dai fascisti perché … minato.
Come “maggior sicurezza” non era male!
Ma Girò conosceva il posizionamento delle mine. Il canotto con i due sabotatori approdò sulla spiaggia più verso Bordighera, forse non si fidavano a seguirei o volevano mantenersi una probabilità di fuga in caso fossimo stati accolti dai nazifascisti.
Solo più tardi ci vennero incontro camminando sulla battigia per paura delle mine. Per un attimo tememmo si trattasse di una pattuglia nemica.
Con estrema cautela Girò ci guidò nel sentiero minato fino a casa sua.
Portammo le armi a Negi come le altre volte, rifornendo le brigate Garibaldine.

Renato Plancia Dorgia  in Giuseppe Mac Fiorucci, Op. cit.

 

Un amico dei partigiani di Bordighera, non ricordo chi fosse, mise a disposizione gratuitamente due bare, una per mio fratello [Alberto Nino Guglielmi, del Gruppo Sbarchi] e l’altra per Alipio Amalberti, trucidato a Badalucco. Insieme a Ezio Amalberti, andammo [fine aprile-inizio maggio 1945] a Baiardo passando da Apricale. […] L’indomani mattina ritornò Ezio con la bara di Alipio. Ritornammo a Vallecrosia scendendo da Ceriana con quel triste carico. Al nostro passaggio la gente si segnava commossa. Il ponte danneggiato lungo la strada era stato reso parzialmente agibile con assi di fortuna. Alcuni uomini impietositi si levarono il cappello e ci aiutarono nel difficile passaggio del ponte. Arrivammo a Vallecrosia in serata ma ci aspettavano in tanti. Venne improvvisata una camera ardente nella sede del PCI. […] L’indomani i feretri furono portati in chiesa per la cerimonia religiosa (per evitare ulteriori problemi mio padre, prima di entrare, tolse le bandiere rosse che coprivano le bare) e quindi seppelliti nel cimitero di Vallecrosia alla presenza di tutti i partigiani e di tanta, tanta gente. […] testimonianza di Emilia Guglielmi in Giuseppe Mac Fiorucci, Op. cit.

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